Il Freney, per la sua storia e la sua collocazione remota nel massiccio del Monte Bianco è il sogno di ogni alpinista. Tutte le vie che percorrono questo versante escono in vetta e hanno tutte un ingaggio notevole. Il mio modo di andare in montagna e di fare la Guida Alpina mi porta spesso controcorrente nell’affrontare le salite: di preferenza da solo con il mio cliente su itinerari poco frequentati o con strategie che mi permettono di esser nel posto giusto al momento giusto senza nessuno intorno. Uno potrebbe dire: come complicarsi la vita! Ma sentirsi soli al mondo in un confronto primitivo tra l’alpinista e la natura, esplorare un luogo nuovo e condividere questo con un compagno di corda è la soddisfazione per me più grande. Farlo da professionista è la realizzazione di un sogno.
L’idea del pilastro Sud del Freney mi è balzata quando siamo andati allo Sperone della Brenva. Dopo l’incidente del 2011 sto ritrovando la forma e la motivazione, ma essendo al momento tecnicamente poco allenato su roccia volevo una salita ingaggiata, che fosse anche un’“alpinata” e non solo difficoltà pura. Il Freney ha sempre attirato la mia attenzione, sopratutto quei pilastri che sembrano dimenticati. Durante la salita alla Brenva, il Pilone centrale sembrava ancora innevato, mentre il Pilastro Sud sembrava quasi acquistare un miglior aspetto per esser scalato. Ma come raggiungere l’Eccles e la base della via? Il compagno ideale per la salita non puó che essere Ma… un cliente fortissimo che sta migliorando a vista d’occhio e che nel tempo è destinato a diventare compagno di corda in amicizia.
Ci pensiamo un p’ su e decidiamo di raggiungere il Col di Peuterey traversando l’Aiguille Blanche che non abbiamo mai salito. Partiamo dal Monzino la mattina presto, scendiamo dal colle dell’Innominata sul ghiacciaio del Freney e ci avviciniamo alle cengie Schneider, punto di partenza per la salita. Nei pressi dell’attacco una grossa frana cade dalla parete e ci lascia interdetti. Ci guardiamo. Siamo obbligati a passare sotto al canale per attaccare la variante alta delle terrazze. Che fare? Di scendere e fare il giro basso non ne abbiam voglia. Ci guardiamo intorno. Sembra possibile passare il ghiacciaio nella sua parte alta. E se provassimo a salire i Rocher Grouber? Sì, proprio quelli della tragedia del ’61. Sembriamo entrambi d’accordo. O la va o la spacca! Mi sento come se stessi ridicolizzando la Storia… ma non è certo mia intenzione!
A circa 100 m dalla terminale, questa ci sembra insormontabile. Poi man mano che proseguiamo sembra passare a sinistra, non lontano dal seracco che abbiamo sopra la testa. Siamo esposti per pochi secondi, ma se cade ci prende. La neve porta bene e possiamo esser veloci quindi passiamo un ultimo ponte effimero e ci nascondiamo sotto lo strapiombo di neve. Siamo tranquilli ora. Supero il muro di ghiaccio aggettante e mi nascondo nuovamente sotto lo strapiombo successivo. Max mi raggiunge. Con altri 40 m arrivo alle rocce e possiamo proseguire tranquillamente.
Ora l’esplorazione ci attende dove Bonatti è sceso nella tempesta… pensare alla tragedia mi fa venire la pelle d’oca. Troviamo vecchi chiodi arrugginiti e cordini sfilacciati che parlano dell’epoca. Procediamo. La roccia non è certo delle migliori e bisogna fare molta attenzione, ma ci si protegge bene e riusciamo a essere sempre al riparo dalle eventuali scariche. Con 8 brevi tiri dettati dal terreno impervio arriviamo al nevaio che conduce al colle. I raggi del sole ormai scaldano fortemente. Come sbuchiamo sul pianoro abbiamo quasi le lacrime agli occhi per lo spettacolo: siamo a 100 m in linea d’aria dai piloni del Freney… nel posto più remoto del Monte Bianco al cospetto di decenni di storia dell’alpinismo e di sogni d’alpinisti. Ci abbracciamo e non facciamo che pensare che domani toccherà a noi, che saremo lassù!
Come dicevo il Sole cocente non ci dà tregua. Siamo arrivati molto prima del previsto e aspettare la sera senza riparo è lungo, anche perché il Sole si nasconde alle 17:30 (e sono le 12:00). Nei pressi del precipizio verso Nord troviamo una crepaccia terminale che fa a caso nostro. Ci infiliamo dentro, all’ombra, seduti su un ponte di neve che sembra reggere e assicurati a 2 viti da ghiaccio. L’ombra dà un grande sollievo ma presto la neve comincia a colare anche dentro il crepaccio! Va beh… usciamo e prepariamo la piazzola per il bivacco. La luce cambia ogni ora e la prospettiva del panorama infinito verso le Jorasses, il Combin e il Monte Rosa cambia con essa. Sembra di essere nel mondo dei balocchi: vorremmo “giocare” con ogni pezzo di roccia e neve che i nostri occhi possono vedere. Ci corichiamo sotto le stelle, davanti ai piloni. Non ci godiamo molto lo spettacolo a causa del vento che ci costringe a nascondere la testa nei sacchi, ma la nostra immaginazione sa bene dove siamo perché è passata di lì tante volte!
L’indomani ci alziamo presto e partiamo con le prime luci. In un attimo siamo alla rampa che dà accesso al canale di sinistra: l’avventura comincia. Fuori dalla rampa rientro subito sul filo. Il terreno si presterebbe bene per “barare”… seguendo velocemente il canale che conduce al Derobé per poi attaccare direttamente il tiro duro, ma: 1) fa caldo e sarebbe pericoloso, 2) non se ne parla neanche, queste salite o si fanno “pure” o non si fanno!
Seguiamo dunque il filo dello sperone roccioso che si mostra più ripido e compatto del previsto offrendo bei passaggi di 4+. Arriviamo alla crestina nevosa menzionata nella relazione e 15 metri a destra troviamo una vecchia sosta: l’unica! Dovremmo essere alla base del primo tiro duro. È difficile capire dove passa… non ci son tracce nè chiodi. Una rampa verso destra sembra la via migliore ma termina contro un diedro strapiombante fessurato. La relazione in effetti ne parla come V+/A1: potrebbe anche essere! Lascio giù lo zaino, metto le scarpette perché il passaggio sembra davvero ostico. Scalo, incastro di mano e meno male che ho le scarpette perché mi tocca pure incastrare di piede! Per fortuna non c’è troppo ghiaccio a complicare le cose. Proseguo ancora una decina di metri sopra al secondo terrazzo che mi ha ingannevolmente lasciato intuire una sosta comoda! Max mi raggiunge e recupera il sacco. Con gli scarponi ai piedi e lo zaino a spalle ha davvero dato del suo meglio!
Con un breve tiro su splendido granito grigio siamo alla base di ciò che la relazione descriveva come diedro aperto con strapiombo di ghiaccio.…un tiro d’antologia per la bellezza, peccato sia così breve. Siamo alla base del monolito rosso e capiamo subito perché la via non passa da lì Lo aggiriamo per misto delicato e troviamo facilmente i risalti che conducono al camino superiore. Arrampico su granito perfetto e non difficile, traverso su una piccola cengia e mi ritrovo sul bordo di un precipizio con di fronte il Pilone Centrale che di profilo accentua la prospettiva di vuoto e verticalità. Guardo in su ed ecco il diedro camino con strapiombo faticoso. Ha un’esposizione pazzesca… la sua base precipita nel vuoto per centinaia di metri. Qui si pongono due alternative: entrare nel camino come da relazione o salire le due fessure perfette che scorrono parallele al suo spigolo sinistro. Mentre recupero Max già mi immagino a incastrare mani e piedi proprio in quelle fessure: dev’esser davvero entusiasmante! Come arriva in sosta fa lo stesso ragionamento anche lui e non c’è bisogno di parlare per decidere.
Attacco le fessure e mi sembra di essere sul Gran Cap! Al loro termine mi ribalto nel camino e mi ritrovo incastraro nello strapiombo di uscita, più impressionante che difficile. Il tiro successivo, benché “solo” di 4+ é sicuramente nei top 3 della via! Vorremmo che non finisse mai: lame e fessure rossastre si susseguono per 60 m. Siamo ormai all’altezza della cuspide della Chandelle… eh sì, perché durante la salita il Pilone ci dà il senso della misura. Siamo quasi fuori! Ancora qualche tiro di misto complicato dalla neve inconsistente ci porta alla cresta del Brouillard. È fatta, siamo fuori dall’ingaggio e dalle difficoltà. Siamo altrettanto increduli di essere lì alle 15:30 del pomeriggio. Non ci resta che l’ultimo sforzo per la vetta e poi scendere lungo la via normale al Monte Bianco in totale solitudine con la mente persa nel nulla.
Rientriamo fino al rifugio Torino dove siamo accolti con cibo e bevande in abbondanza anche se l’ora è ormai tarda. La notte non può che fissare le immagini della giornata tra i più bei monenti di alpinismo della mia vita: un sogno che diventa realtà fa sì che la realtà possa continuare a farci sognare… Come ho detto prima di partire questo sarebbe stato solo l’inizio: se il fisico lo concede, con Max ne faremo ancora delle belle!
Si ringraziano gli sponsors Patagonia, Scarpa e Baroli Sport per il materiale fornito.